Il reato di resistenza a pubblico ufficiale è regolato dall’art. 337 c.p. ove è sancito che
“chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.
Il bene giuridico tutelato è proteiforme: la libertà di azione della pubblica amministrazione nel momento attuativo delle decisioni già adottate e la libertà dei soggetti pubblici contro le altrui condotte violente o intimidatrici.
Soggetto attivo del reato è chiunque (reato proprio) mentre il soggetto passivo sono il p.u. o l’i.p.s.
La condotta si estrinseca con il ricorso alla violenza o minaccia (descritte nei termini menzionati) ma è necessario che ciò avvenga nel momento in cui la pubblica amministrazione, nelle persone dei p.u. o degli i.p.s., abbia attuato, almeno in principio, l’atto del proprio ufficio.
La presenza della parola “mentre” evoca la necessità di contestualità tra la resistenza e l’attività del pubblico funzionario.
Non integra gli estremi della condotta punibile la resistenza passiva o la semplice disobbedienza o fuga.
L’elemento soggettivo è il dolo specifico, costituito dalla coscienza e volontà di usare violenza o minaccia al fine di ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto.
La consumazione avviene nel tempo e luogo in cui si è verificata la violenza o minaccia.
Ai fini pratici è opportuno che, integrati gli elementi essenziali delle condotte dianzi analizzate, l’ufficiale o l’agente di p.g. che le abbia subite provveda a una minuziosa descrizione della condotta del reo nell’annotazione (e di riflesso nella c.n.r.) che permetta al pubblico ministero di avere piena cognizione della portata lesiva della violenza (o minaccia) e resistenza attuata.
Il reato in esame “vive” di giurisprudenza, sicché l’esperienza concreta nelle aule di giustizia è in grado di tracciarne i limiti applicativi.
E’ – pertanto – primario che l’operatore di polizia giudiziaria si mantenga aggiornato in relazione alle novità giurisprudenziali che interessano l’illecito penale.
Ciò detto, nel corso dell’ordinario servizio, però, non di rado capita il soggetto interessato dall’attività operativa non manifesti la sua resistenza attraverso condotte plateali o violente, ben potendosi limitare a pronunciare parole, ancorché apparentemente velate, astrattamente idonee a influenzare l’operatore, costituenti una millanteria.
Ci si occupa, ora, del caso trattato da Cass., Sez. VI, 10 luglio 2019, n. 30.424.
In estrema sintesi, nella sentenza si evidenzia, in premessa, come il reato di resistenza a pubblico ufficiale sia stato tipicizzato dal legislatore soltanto sotto il profilo teleologico (ovvero la finalità della norma) come volontà diretta ad impedire la libertà di d’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, poiché la minaccia o la violenza possono consistere in qualunque mezzo di coazione fisica o psichica diretto in modo idoneo ed univocamente a raggiungere lo scopo di impedire, turbare, ostacolare l’atto di ufficio o di servizio intrapreso.
L’idoneità della minaccia va valutata con giudizio ex ante a nulla rilevando il fatto che in concreto i destinatari non siano stati intimiditi e che il male minacciato non si sia realizzato.
Tanto chiarito, il principio espresso dalla Cassazione precisava come pure la millanteria può costituire mezzo idoneo a turbare e ostacolare l’operato del pubblico ufficiale, per effetto della prospettazione di conseguenze pregiudizievoli attraverso la presentazione di un esposto calunnioso con l’implicito riferimento alla possibilità di creare problemi grazie alle proprie conoscenze influenti.
La fattispecie al vaglio della Cassazione era incentrata sulla condotta di un imputato, condannato in secondo grado, che aveva cercato di ostacolare l’attività degli agenti facendo intendere di essere in grado di arrecare loro problemi in sede giudiziaria, millantando di averlo già fatto contro altri agenti, quindi prospettando implicitamente la presentazione di una denuncia calunniosa.
Fondamentale, dunque, l’esatta indicazione, nella comunicazione di notizia di reato, delle parole utilizzate dal soggetto; consiglio, personalmente, di evitare una parafrasi riassuntiva, ma è buona pratica ricorrere alla verbalizzazione precisa e puntuale delle parole effettivamente pronunciate mediante la loro inclusione nelle virgolette.