A volte, nel corso della vita, ci si può trovare in una situazione in cui potrebbe tornare utile registrare una conversazione, al fine di procurarsi la prova di un evento, di una condotta, di una dichiarazione, anche per scopi di natura giudiziaria, sia sotto il profilo penalistico che civilistico, ivi compreso il diritto del lavoro.
La domanda che ci si potrebbe porre più facilmente e frequentemente é se la registrazione di una conversazione (all’insaputa del nostro interlocutore) non violi le norme sulla privacy.
La risposta non è univoca, ma presuppone dei distinguo.
Registrare è diverso che intercettare
Innanzi tutto, occorre premettere e precisare che una conversazione di cui noi siamo parte é fattispecie diversa dall’intercettazione: quest’ultima, infatti, consiste nell’apprendimento celato, occulto, nascosto, del contenuto di una conversazione da parte di persone estranee al colloquio e richiede l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria; un colloquio, invece, in cui uno degli interlocutori registra, altro non è che l’apprendimento di contenuti costituenti un patrimonio di conoscenza comune, una documentazione di quanto già appreso nella conversazione: in teoria, infatti, ci si potrebbe ricordare perfettamente, parola per parola (immaginiamo di avere una memoria degna di Pico della Mirandola!) quanto sentito in una conversazione cui si sia presa parte; pertanto, la registrazione non è altro che una memorizzazione, su apparecchio tecnologico, di quanto già immagazzinato dalla mente in relazione ad un fatto che ci ha visto partecipi. In tale circostanza, quindi, la registrazione è lecita, trattandosi di una particolare forma di documentazione di quanto avvenuto tra due o più persone (Cass. Pen. n. 24288/16, Sez. II ), che non necessita di autorizzazione del G.I.P., ai sensi dell’art. 267 c.p.p., proprio perchè non si tratta di intercettazione.
Chi interloquisce con una persona, anche al telefono, esternando un pensiero, un’opinione, un’ informazione, accetta implicitamente il rischio che la conversazione possa venire registrata (Cass. Pen. n. 18908/2011 Sez. III ).
La registrazione è illegittima solo nelle seguenti ipotesi:
a) se effettuata da una persona non presente nella conversazione;
b) se svolta nella dimora privata del soggetto registrato o in un luogo privato di sua pertinenza (posto di lavoro, casa di un suo parente, studio del suo legale di fiducia, et cetera). All’interno dell’abitazione di chi registra o in un luogo di sua pertinenza, automobile compresa, o sulla pubblica via o in un esercizio pubblico, la registrazione è sempre lecita (purchè fatta da una persona presente alla conversazione).
Registrare una persona nelle due suddette circostanze integrerebbe il reato di cui all’art. 615 bis c.p. – Interferenze illecite nella vita privata – o il reato di cui all’art. 167 del D. Lgs. n. 196/2003 (c.d. Codice della Privacy) – Diffusione illecita di dati personali- (1).
Diverso è il discorso relativo alla diffusione della registrazione: questa può avvenire solo sulla base del principio di liceità, di cui all’art. 5 GDPR (Reg. U.E. 2019/679), ossia: a) col consenso della persona registrata; b) per adempiere ad un obbligo di legge; c) per un’ esecuzione contrattuale; d) nell’ambito dell’ esercizio di pubblici poteri; e) per la salvaguardia di interessi vitali; f) nel legittimo interesse del titolare trattamento.
Al di fuori delle suddette ipotesi, infatti, la diffusione di quanto registrato integrerebbe un trattamento illecito di dati, in quanto non diretta a tutelare:
- un diritto proprio o di terzi;
- a difenderlo in giudizio;
- per portare un fatto a conoscenza dell’autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza;
- a fini di prova nel processo penale (Cass. Pen. n. 5241/17 Sez. III), secondo le prescrizioni di cui all’art. 234 c.p.p. ,
- e in quello civile, dove la registrazione costituisce prova documentale, acquisibile in virtù dell’art. 2712 c.c., la cui efficacia può venir meno solo mediante l’istituto del disconoscimento, con cui la parte registrata, in maniera chiara, circostanziata ed esplicita, deve produrre elementi che dimostrino inequivocabilmente la non corrispondenza tra la realtà dei fatti e quanto contenuto nella registrazione (Cass. Sez. Lavoro n. 2117/11).
Anche in ambito giuslavoristico la registrazione di conversazioni non può essere sanzionata, neanche disciplinarmente, se il lavoratore vi ha fatto ricorso per tutelare i propri diritti (Cass. Sez. Lavoro n. 11322/18). Tale disposizione normativa, di particolare favore, è dovuta al fatto che il lavoratore potrebbe trovarsi privo della testimonianza dei colleghi, a supporto delle sue rivendicazioni, in quanto il timore di subire eventuali ritorsioni potrebbe compromettere le deposizioni testimoniali di questi ultimi (Cass. sez. lavoro n. 27424/14).
La registrazione di un colloquio svolto all’interno di uno studio legale, invece, è assolutamente vietata in quanto viola il diritto di difesa del cliente e il domicilio; pertanto, una prova eventualmente raccolta in tal luogo sarebbe inammissibile, anche nel procedimento di erogazione di sanzioni disciplinari.
(1) Il reato di cui all’art. 167 del D. Lgs. 196/2003 richiede il dolo specifico, ossia la volontà di nuocere o di trarre profitto dalla diffusione illecita di dati personali.