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E’ LECITO FOTOGRAFARE O FILMARE LE FORZE DELL’ORDINE IN SERVIZIO?

Chissà quante volte la domanda nel titolo è risuonata nella mente degli agenti di polizia o anche dei semplici cittadini che, magari, hanno pensato di riprendere pattuglie di forze dell’ordine in servizio, impegnate in operazioni di controllo o  in manifestazioni ed eventi pubblici, per i più disparati motivi: dal desiderio di stigmatizzare sui social un comportamento, da loro non ritenuto consono al ruolo degli agenti, al piacere di conservare e diffondere la foto dell’ultimo modello di automobile adottata dai corpi di polizia…

Fornire una risposta a tale quesito è importante, poichè la questione coinvolge diritti ed interessi confliggenti: da un lato la privacy degli appartenenti alle forze di polizia, in quanto esseri umani, e la protezione del ruolo delicato da loro svolto, dall’altro la diffusa ed immediata disponibilità di strumenti atti alle riprese, da parte dei cittadini, e l’utilità di usarli, anche ad eventuali fini probatori e di difesa.

Come risolvere il potenziale conflitto tra questi due aspetti? Come sempre, e com’è giusto, rifacendoci alle norme in vigore che regolano le fattispecie della privacy e della protezione dei dati.

Le immagini e i filmati rientrano nella definizione di dato personale, in quanto atti ad individuare ed identificare una persona e, pertanto, sia l’acquisizione che la diffusione delle predette informazioni costituiscono un trattamento di dati, cui applicare la disciplina relativa, che oggi è costituita dal Reg. U.E. 2016/679 (anche conosciuto con l’acronimo di GDPR), dal cosiddetto Codice della privacy (D. Lgs. 196/2003, come modificato dal D. Lgs. 101/2018) e dal D. Lgs. 51/2018, di attuazione della Dir. U.E. 2016/680 .

Secondo una sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. IV,  24 gennaio 2012, n. 10697) tutto quello che l’occhio umano può vedere, può anche essere fotografato e ripreso. Il motivo di tale assunto è intuibile: in un’area pubblica, dove quello che si fa e si mostra è sotto gli occhi di tutti, non avrebbe senso impedire a qualcuno la ripresa di immagini e suoni che tutti possono vedere ed udire (dove sarebbe la violazione della privacy, in tale circostanza?) e non sarebbe neanche materialmente possibile farlo, peraltro, dal momento che ognuno è sotto lo sguardo di decine di persone in ogni minuto della sua giornata ed in ogni metro di spostamento, per cui non avrebbe neanche la possibilità di accorgersi di chi lo stia, eventualmente, riprendendo in video o foto.

Ma, poiché caricare su Internet o sui social dei dati personali configura un trattamento di dati e, quindi, richiede una delle motivazioni di cui all’art. 6 GDPR, ai fini della liceità del trattamento, è vietato diffondere un video o una foto, a meno che non si adottino degli accorgimenti per rendere irriconoscibili le persone riprese (per es. sfocando l’immagine del viso) o non si sia ottenuto il consenso della persona fotografata o filmata o non vi sia uno degli altri motivi, elencati nell’art. 6 GDPR, che rende lecito il trattamento dei dati (altrimenti, vietato). E questo vale per tutti, semplici cittadini e pubblici ufficiali, a meno che i dati non siano necessari all’attività giornalistica, ai fini di una corretta informazione, e solo se le immagini sono di interesse generale. I giornalisti devono, comunque, evitare di mostrare particolari che nulla aggiungono al senso della notizia.

Questo, per quanto riguarda le riprese fatte in spazi pubblici ed aperti al pubblico.

Ma che dire, relativamente alle riprese all’interno di un Comando di Polizia o di una caserma, durante lo svolgimento di un’attività istituzionale?
Sul divieto di diffusione, nulla quaestio. Se vige tale proibizione per audio ed immagini acquisiti in luoghi pubblici, a fortiori la regola vale per quanto ripreso in luoghi privati o istituzionali.

Ma è possibile scattare foto o registrare audio e video dentro gli uffici di una sede di Polizia?

La fattispecie ha, negli scorsi anni, interessato la Corte di Giustizia dell’Unione Europea: nella causa C-345/17 l’Avvocato Generale della CGUE ha tratto alcune conclusioni in riferimento al rinvio pregiudiziale (1) che la Suprema Corte della Lettonia aveva demandato alla Corte dell’U.E., per ottenere l’interpretazione della Dir. 95/46 CE, al fine di decidere di una controversia relativa ad un cittadino lettone.

Questi aveva filmato e diffuso sul web una conversazione fra lui e alcuni agenti di polizia, svoltasi all’interno di un commissariato, dove lo stesso si era recato per discutere di una multa; ma era stato denunciato per violazione delle norme lettoni sulla privacy.

Ricordiamo che il GDPR ha abrogato la Dir. 95/46; tuttavia, le conclusioni dell’Avvocato Generale rimangono ugualmente interessanti poichè i principii sottesi alla disciplina della protezione dei dati attualmente in vigore sono gli stessi (poggiando sui principii dei Trattati UE e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE) e, anzi, la normativa introdotta dal GDPR è persino più severa.

Nella causa appena citata, la Repubblica Ceca, l’Italia, la Polonia, il Portogallo e la Commissione U.E. sostenevano che diffondere video su Youtube rientrasse nell’ambito di applicazione della direttiva 95/46 (precisamente, in riferimento alla formulazione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva stessa, in quanto avrebbe costituito un trattamento di dati personali interamente o parzialmente automatizzato e, pertanto, sarebbe stata un’attività lecita, equiparata a quella giornalistica). L’Austria e la Lettonia affermavano il contrario.
L’Avvocato Generale è arrivato alle seguenti conclusioni: che solo una norma statale, che derogasse a quelle europee in materia, avrebbe potuto consentire che la privacy dei titolari di funzioni pubbliche, nel corso dello svolgimento di attività istituzionali, potesse essere intaccata.
Una tale eccezione è attualmente prevista solo per l’attività giornalistica, non equiparabile a quella dell’utente di un social network che vuol rendere evidente l’operato della polizia (peraltro, aggiungiamo noi, di fronte ad un reato commesso dalle forze dell’ordine, le immagini probanti andrebbero consegnate direttamente all’Autorità Giudiziaria, senza bisogno di diffonderle coram populo).

Pertanto, in assenza di disposizioni contrarie, la ripresa, la fotografia e la registrazione vocale di funzionari pubblici nell’esercizio delle loro funzioni nel luogo di lavoro, nonchè la diffusione su Internet di quanto ripreso e registrato, per l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia U.E. costituiscono un trattamento di dati personali, vietato e, quindi, penalmente illecito.

D’altro canto, il diritto alla riservatezza, oltre alle fonti sopra citate, è riconosciuto e tutelato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e riguarda sia privati cittadini che pubblici funzionari; il GDPR vieta, a tal proposito, il trattamento dei dati, a meno che non vi sia il consenso degli interessati o un obbligo di legge o di contratto o la necessità, per gli enti pubblici e gli organismi di diritto pubblico, di raggiungere delle finalità istituzionali (art. 6 GDPR).
Naturalmente, anche in presenza di consenso, le operazioni di servizio riprese non devono essere coperte da segreto istruttorio, né violare la privacy di terzi, come nel caso di dimostranti o di fermati ed arrestati, per fare alcuni esempi.

La Corte di Cassazione, invece, come si legge nella sent. n. 24288/2016 del 10.06.2016, con riferimento alle registrazioni vocali, ritiene che queste possano essere compiute di propria iniziativa da uno degli interlocutori, in quanto non rientrerebbero nel concetto di intercettazione in senso tecnico (per la quale è necessaria l’autorizzazione di un magistrato) bensì di una particolare forma di documentazione. “Al riguardo le Sezioni Unite hanno evidenziato che, in caso di registrazione di un colloquio ad opera di una delle persone che vi partecipi attivamente o che sia comunque ammessa ad assistervi, difettano la compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la “terzietà” del captante. L’acquisizione al processo della registrazione del colloquio può legittimamente avvenire attraverso il meccanismo di cui all’art. 234 c.p.p., comma 1, che qualifica documento tutto ciò che rappresenta fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo; il nastro contenente la registrazione non è altro che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare (si pensi alla vittima di un’estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la propria difesa, con l’effetto che una simile pratica finisce col ricevere una legittimazione costituzionale. (Cass. Sez. Un. 28-5-2003 n. 36747)”.

Dunque, sembrerebbe possibile registrare ciò che dice una persona, anche senza il suo consenso, purché ciò non avvenga presso il suo domicilio, gli altri luoghi di privata dimora o ove questa vanti una maggiore sfera di riservatezza (ad esempio, l’automobile o il posto di lavoro); ma poiché il Commissariato, la Stazione dei Carabinieri, la Questura, il Comando di Polizia Municipale sono luoghi pubblici, non si può più parlare di tutela della privacy. Pertanto, parrebbe possibile possibile registrare quanto detto da un pubblico ufficiale, indipendentemente dal luogo in cui avviene la registrazione (sempre che non vi siano motivi ostativi, come il segreto istruttorio, la tutela della riservatezza di terze persone e via discorrendo).

In caso di necessità probatorie, registrazioni ed immagini potranno, all’uopo, essere prodotte in dibattimento o allegate ai ricorsi o alle segnalazioni ai superiori degli agenti, affinché prendano eventuali provvedimenti disciplinari, nelle malaugurate ipotesi di comportamenti sanzionabili, ma permane il divieto di diffusione, senza il consenso degli interessati.

Che cosa dice in proposito l’Autorità Garante della Privacy ?

Con nota 14755 del 5 giugno 2012, rispondendo ad un quesito del Ministero dell’Interno, il Garante ha precisato (2) che i funzionari pubblici e i pubblici ufficiali, comprese le forze di polizia impegnate in operazioni di controllo o presenti in manifestazioni o avvenimenti pubblici, possono essere ripresi con foto o video, purché ciò non sia espressamente vietato dall’Autorità pubblica; ovviamente, le riprese devono avvenire nel rispetto dei limiti e delle condizioni dettate dalla normativa. Quindi: bisogna, innanzitutto, evitare la diffusione dei dati tutte le volte in cui l’autorità pubblica lo vieti; occorre ricordare che la legittimità dell’utilizzo delle immagini dipende dalle modalità con cui avviene la comunicazione (differenziandosi tra diffusione dei dati tra un numero ristretto di persone, un numero mediamente ampio, la diffusione in rete, etc.) e dallo scopo della loro utilizzazione (se a fini di giustizia o di pura diffamazione).
Acquisizione e diffusione di immagini e voci costituiscono un trattamento di dati personali, infatti, oggi possibile solo col consenso dell’interessato e per gli altri motivi elencati nell’art. 6 GDPR; naturalmente, le persone riprese che ritengano lesi i propri diritti possono sempre ricorrere ai rimedi previsti dall’ordinamento, sia in sede civile che penale, nonchè segnalando la fattispecie al Garante. E’ intuibile che, se il trattamento dei dati personali  è effettuato per ragioni di giustizia, l’interessato non possa opporsi (secondo i diritti riconosciuti dagli artt. 15-22 GDPR) alla diffusione dei dati personali (pensiamo alla necessità di identificare e rintracciare l’autore di un reato, per esempio).

Quale comportamento dovrebbe tenere, allora, un appartenente alle forze dell’ordine che si accorga di essere ripreso? Partendo dal presupposto che le riprese sono consentite potrebbe, con atteggiamento composto, chiedere di non essere ripreso (se possibile) oppure identificare la persona e dichiarare, possibilmente dinanzi a testimoni, che non intende prestare il suo consenso alla diffusione delle immagini, dell’audio o dei video appena ripresi. Non si deve, tuttavia, pensare di poter sequestrare gli strumenti o le foto ed i filmati, poiché un simile comportamento integrerebbe un abuso da parte degli operatori di Polizia, a meno che non vi siano ragioni giuridiche che lo consentano.

Per contro, in caso di diffusione illecita dei filmati (ossia, fatta in assenza del consenso ed effettuata allo scopo di trarre profitto per sè o per altri o di recare danno all’interessato – si tratta di dolo specifico), si integrerà il reato di “trattamento illecito di dati”, di cui all’art. 167 del Codice della privacy, perseguibile d’ufficio.

(1) Il rinvio pregiudiziale è previsto dall’art. 267 TFUE e consiste nella decisione, da parte di un Giudice nazionale, di chiedere una pronuncia alla Corte di Giustizia dell’U.E. in merito all’interpretazione di una norma dell’U.E. (norma dei Trattati o dei regolamenti, direttive e decisioni) che il Giudice nazionale deve applicare per decidere di una controversia a lui sottoposta.

(2) I provvedimenti del Garante, adottati prima dell’entrata in vigore del GDPR, rimangono validi in quanto compatibili con la nuova normativa; le loro prescrizioni rappresentano un’ottima guida per applicare le norme in materia di protezione dei dati, ma resta inteso che l’ultima parola in materia di interpretazione della norma rimane del Giudice e che il titolare del trattamento dei dati, conformemente al principio di accountability che informa il GDPR, dovrà adottare anche gli accorgimenti non contemplati dal Garante nei suoi provvedimenti, laddove ne ravvisasse la necessità.




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