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MOBBING AD UN AGENTE DELLA POLIZIA MUNICIPALE

Una recente sentenza della Corte di Cassazione Lavoro, la n. 2142 del 27 gennaio 2017, nel prendere in esame un caso di mobbing denunciato da un agente della Polizia Locale Municipale che lamentava di aver subito umiliazioni di ogni sorta e abusi sul luogo di lavoro, nel confermare la condanna, la Suprema Corte, rammenta quelli che sono gli elementi fondamentali affinché si possa provare l’attività persecutoria sul luogo di lavoro ed ottenere, come è stato la condanna del “Comune, datore di lavoro del Signor X, al pagamento, a titolo di risarcimento del danno biologico“.

E’ necessario premettere che la definizione “mobbing” deriva dal latino “mobile vulgus” e dall’inglese “mob” che hanno dato il significato di <movimento della gentaglia>. Dal punto di vista etologico nasce, a seguito degli studi effettuati dalla psicologia del lavoro, nei paesi anglosassoni e scandinavi, sugli atti e comportamenti tenuti da taluni soggetti nei confronti di altri, al punto di causare a questi ultimi, sofferenze psicologiche che, spesso, hanno luogo nei contesti dove si esercita una professione o una prestazione lavorativa e si ripercuotono sulla loro vita personale e familiare.

In conformità ai principi costituzionali di tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, ai sensi dell’art. 35, oltre che di garanzia dei diritti inalienabili, quali la dignità, la libertà, la salute e la parità di tutti i cittadini, ai sensi degli articoli 3, 13 e 32, della Costituzione, in Italia, il parlamento ha provveduto a legiferare nei diversi ambiti, anche se con ritardo, approvando le relative norme (vedasi qui di seguito l’elenco non esaustivo delle stesse) che hanno permesso di prevenire e reprimere i comportamenti contrastanti con i suddetti principi.

Per iniziare, il caso è quello dell’agente di polizia che “venne assegnato allo svolgimento delle pratiche cimiteriali, con sede stabilita presso gli uffici cimiteriali. Dalle deposizioni testimoniali era emerso che fu accompagnato all’entrata del cimitero e gli fu detto che quella era la sua sede di lavoro.”  Ecco, fondamentale all’accertamento della sussistenza del mobbing è la presenza di testimonianze. Questo non sempre accade, anzi molto spesso il mobbizzato rimane isolato dal contesto sociale in cui si trova a lavorare.

Tra gli attori del mobbing, infatti,  si possono distinguere,  rispetto alle condotte poste in essere:

  • i mobbers principali, ovvero  l’autore o gli autori dell’azione vessatoria;
  • i mobbers secondari che sono coloro che affiancano gli attori principali attivamente con condotte singole o reiterate ma autonome, sempre nel senso di seguire la strategia dei mobbers principali;
  • i side mobbers ovvero i colleghi, superiori o anche sottoposti che, pur non partecipando direttamente all’aggressione, sono a conoscenza della situazione e spalleggiano il “capo”.

Il comportamento del side-mobber è subdolo: quando il conflitto è ormai manifesto si dichiara totalmente estraneo alla vicenda e vigliaccamente  ignaro della situazione nonostante che con il loro comportamento divengono loro stessi dei mobber poichè complici della malvagità che si sta perpetrando in danno di qualcuno.

I bystanders, invece, sono coloro che assistono passivamente (i tolleranti), con un ruolo, seppur nella funzione dello spettatore, che è  molto sottovalutato nonostante abbia  un’importanza cruciale per lo sviluppo del mobbing. Con questo esempio si può comprendere quanto questa “tolleranza” permetta al mobber, non solo di agire indisturbato, ma di trasferire su questi, seppur indirettamente, il suo “potere” coercitivo. Il che significa che un collega che assiste al mobbing e non interviene in alcun modo, neanche sostenendo la vittima evitando di farlo sentire solo e abbandonato dal gruppo, in qualche modo può diventare lui stesso un mobber, ossia un side-mobber: egli infatti favorisce il mobbing con la sua indifferenza e la sua non disponibilità ad intervenire.

Nel caso in questione, oltre alla testimonianza sopra riportata, numerose altre hanno permesso di ricostruire una persecuzione mirata, motivata da un precisa ratio, e comprovata dal nesso biologico.

E’ bene far rilevare che in Italia non è ancora prevista una precisa fattispecie penale, per cui al massimo potrebbe ricorrere il delitto di “Violenza Privata”   “chiunque, con violenza o minaccia costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa” (art. 610 c.p.).

Attualmente, quindi, è previsto solo un indennizzo  economico pagato dall’azienda (persona giuridica) quale risarcimento economico in sede di giudizio al Tribunale del Lavoro; ma i veri colpevoli (persone fisiche) non “pagano” per le loro colpe, né economicamente, né penalmente e pertanto, rimangono liberi di continuare ad adottare nei confronti del mobbizzato ogni forma di tecnica persecutoria.

Perchè una condotta persecutoria si qualifichi come mobbing sono necessari tre aspetti concomitanti anche se con una certa flessibilità:

  1. Un certo numero ed una certa durata delle azioni persecutorie (almeno un’aggressione alla settimana per un periodo non inferiore ai sei mesi);
  2. la ripetitività e reiterazione di queste azioni per un certo lasso temporale;
  3. le lesioni sulla sfera personale della vittima.

Infatti, in tal senso si esprime la Suprema Corte, ponendo l’accento sugli aspetti che devono essere necessariamente presenti affinchè si possa riconoscere il carattere di persecuzione sul luogo di lavoro: “… a tal fine devono ricorrere:

  1. a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 17698 del 2014).

Nel Mobbing esiste una costante:

la vittima perde gradatamente la sua posizione attraverso delle precise azioni  che sono persecutorie e finalizzate ad isolare la vittima attraverso  attività tendenti a provocare la disistima dei colleghi, a provocare il discredito sul lavoro, compiuto a compromettere la salute della vittima.

Le conseguenze del mobbing sono la base su cui dimostrare che davvero trattasi di atti persecutori idonei a procurare dei disturbi nella sfera della salute.

Sono queste le conseguenze individuali del mobbing: alterazione dell’equilibrio psicofisico. Disordini che producono stress e dunque ripercussioni a livello organico.

Qualora il lavoratore riesca a provare, come in questo caso, il rapporto causale fra il danno subito e le persecuzioni subite sul lavoro, ha diritto a essere risarcito.

Sentenza  Corte di Cassazione Lavoro, la n. 2142 del 27 gennaio 2017

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