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Dal bullismo al knockout game

Per rispondere alla domanda del sottotitolo, occorre prima fornire una spiegazione su quale sia il confine tra un comportamento considerato criminale ed un atto che, pur non violando una precisa fattispecie penale, di fatto é paragonabile per molti versi ad un crimine. Volendo sintetizzare, e per pura chiarezza: quando un comportamento viola una precisa fattispecie astratta, tipizzata, cioè, in un codice normativo di tipo penale, tale comportamento si dice “criminalizzato” in quanto poi  sanzionato dal Codice Penale vigente. A tal proposito,  in un incontro con ragazzi/e di scuola media inferiore, nell’ambito dell’ “Educazione alla Legalità”,  proprio un ragazzino  segnalatomi da un’insegnante come “problematico” , e per il quale avrei potuto avere difficoltà a tenere “l’incontro” con le classi, ci suggerì un chiaro esempio raccontando di un suo “scherzo”. Proprio quel ragazzino ripetente e problematico, con un genitore in carcere, aveva compreso bene il valore del suo gesto. Egli raccontò di quando svitò i sifoni dei lavabi nel bagno dei maschi… Chiaramente al solo racconto molti si misero a ridere, immaginando le conseguenze per chi aveva usato quel lavandino. Quando, però, fu rappresentato loro l’effetto che si sarebbe potuto verificare, ovvero che la scuola avrebbe potuto allagarsi con conseguente  grave danneggiamento, a quel punto i volti si fecero scuri e pensierosi. Mi è parso di capire, in quel contesto, che in nessuno di quegli adolescenti si era affacciato il benchè minimo pensiero di voler arrecare un effettivo danno alla scuola, avendo reputato quel gesto un atto di goliardia. Anche gli atti di bullismo, a meno che non rivestano carattere penale, rappresentano comportamenti devianti, proprio come lo svitare un sifone dal lavabo del bagno della scuola. Deviato è, infatti,  quel comportamento che si discosta dalle regole, anche quelle non scritte,  della società o di una sua parte, che  per tale motivo è riprovato dai consociati.  Anche il bullismo deve essere considerato “un’ infrazione della norma sociale”, un comportamento non conforme ai modelli e alle aspettative della consociazione nella quale si vive, una violazione delle regoli sociali che mette a rischio un “bene”, sia esso materiale e/o morale. Quando si parla di “non conformità”, non  si deve intendere uno scostamento in senso statistico, ovvero come allontanamento dalla media dei comportamenti tenuti in un dato contesto, ma  come modalità d’azione o stile di vita disdicevole, da prevenire, reprimere, controllare e trattare, come ad esempio l’alcolismo o la tossicodipendenza, a prescindere dal fatto che sia legata o meno ad un’ azione criminale.  Nel bullismo, a differenza del gesto raccontato, la vittima subisce uno “stillicidio” che a taluni procurerà un motto di ilarità e ad altri indifferenza, sebbene il danno potrebbe essere irreversibile.
In Italia sono 20.213 gli autori di reato minorenni presi in carico nel 2013 dagli Uffici del Servizio Sociale per i Minorenni del Dipartimento per la Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia.
I principali reati riscontrati sono: reati contro il patrimonio, soprattutto furto e rapina; violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti, soprattutto tra gli italiani, ed i reati contro la persona, lì dove prevalgono le lesioni personali volontarie. (Fonte ISTAT  Dipartimento Giustizia Minorile, 2013).

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Chi è il minore che delinque?

Nell’80% dei casi si tratta di italiani di cui l’89% di sesso maschile; tuttavia, sia la percentuale delle femmine che quella degli stranieri sul totale è aumentata tra il 2011 e il 2013. La fascia di età maggiormente rappresentata è quella dei 14-17 anni, con il 75%. Più della metà dei ragazzi ha un’età compresa tra 16 e17 anni (52,8%) mentre il 22,9% ha 14-15 anni con una prevalenza di ragazze straniere. Infine il 23,7% ha già compiuto i 18 anni durante il periodo di presa in carico dal USSM. Chi sono i minori che delinquono?  I cosiddetti ragazzi “di buona famiglia e senza problemi”, i ragazzi con problemi economici e sociali  ed  i ragazzi emarginati (Rom, stranieri, di periferia). Al primo gruppo appartengono i ragazzi che si trovano in una situazione di “malessere del benessere”, dove il concetto di benessere deve essere inteso in senso materialistico, stante la loro fragilità psichica. I reati sono spesso legati al possesso di beni effimeri per raggiungere uno status e all’accesso a situazioni di «divertimento» per ottenere le quali ci si rende responsabili di violenze di gruppo, anche a scopo sessuale, ecc. Tutti questi comportamenti sembrano legati a significati simbolici di autoaffermazione, di ricerca di senso e di comunicazione, in cui si evidenzia l’incapacità a riconoscere l’altro come essere umano.
Il bullismo rappresenta, quando non sconfina in comportamenti sopra descritti,  una nuova forma di devianza propria dei giovani, che si manifesta come azione di gruppo nei confronti di uno o più individui incapaci di difendersi.

Il persistere del comportamento può trasformare i bulli in futuri devianti, in criminali, e le vittime in soggetti irrimediabilmente depressi e/o condurre a suicidi.

La responsabilità non può, però, essere attribuita semplicemente al bullo perchè il bullismo, da fenomeno circoscritto a due individui (il bullo e la vittima), può essere letto prima come fenomeno di gruppo ed in ultimo come un fenomeno culturale, espressione di una società in cui, di fatto, sono dominanti i valori della sopraffazione e dell’arbitrio del più forte sul più debole, in cui i modelli vincenti, spesso veicolati anche attraverso i mass media, sono quelli dell’arroganza e del non-rispetto per l’altro.  Sono state proposte molteplici definizioni ma quella che meglio descrive questa realtà è quella che vede nel bullismo “una forma di aggressione che implica un sistematico abuso di potere”. La matrice del bullismo è, quindi, di tipo relazionale: un soggetto si avvale del proprio potere per infliggere un danno ad un soggetto più debole, non in condizione di difendersi, allo scopo di affermare il proprio dominio sull’altro. Anche le consociazioni anonime contribuiscono enormemente ad amplificare il ricorso all’aggressività. Esse costituiscono la realtà moderna: si è individui appartenenti ad aggregati anonimi, società basate su nuclei familiari individualistici, dove gli altri rimangono perfetti sconosciuti, società senza un legame identitario forte di base. Questa concezione ci fa sentire meno legati ai nostri congeneri e di conseguenza accresce anche il senso di solitudine e di distacco nei confronti degli altri. Ci si chiude, chiunque diventa estraneo, anche il nostro vicino di casa, pur condividendo lo stesso stabile e lo stesso quartiere. Si arriva ad essere cittadini (non in senso comunitario, piuttosto come appartenenti ad un luogo), in corsa solitaria ed estenuante, verso una competizione con l’altro.  Purtroppo, la nostra capacità empatica risulta spesso atrofizzata, allo stesso modo che  la capacità di vedere il mondo dal punto di vista degli altri, sia sul piano emozionale che su quello cognitivo.

shutterstock_132104969 Il bullismo, quindi,  non va quindi confuso con un qualsiasi atto aggressivo o comportamento delinquenziale, perché l’essenza del bullismo risiede nella motivazione principale, per il soggetto prevaricante:  affermare il proprio dominio sull’altro nell’ambito delle proprie relazioni interpersonali.
Spesso, poi, se la persona presa di mira reagisce o si lamenta, anche l’ambiente circostante non capisce e pensa ad esagerazioni, diventa espulsivo o semplicemente fa finta di niente. Perché in effetti non sembra che stia succedendo qualcosa, non sempre ci sono parolacce, pugni, grida, soprusi o ingiustizie evidenti. È tutto molto nascosto, è una violenza fatta di gesti, di sguardi, di parole non dette, di telefonate mute, messaggi, di minacce incombenti come il fatto di trovare una persona non gradita dovunque si vada, eccetera.

Quali  vantaggi per il bullo?

Raramente sono di natura materiale, più spesso sono di natura simbolica. Il vantaggio più evidente per il bullo è l’accrescimento del proprio status all’interno del gruppo. Si spiega così, ad esempio, perché i comportamenti di prevaricazione  avvengono quasi sempre in presenza di un pubblico. Il distacco emotivo (presenze virtuali), le carenze affettive, l’uso della violenza come sistema educativo, l’eccessiva rigidità o il permessivismo degli educatori, le situazioni conflittuali familiari, la vicinanza ad ambienti degradati e a sottoculture devianti, il basso QI, gli insuccessi scolastici e le scarse condizioni economiche,  sono tutti fattori potenzialmente idonei a facilitare un futuro comportamento deviante. POTENZIALMENTE  NON SIGNIFICA  CON CERTEZZA!!!    In generale, bisogna riconoscere che, come ognuno di noi  ha parti positive e parti negative ed impara ad accettarle come componenti della propria persona, imparando a conviverci, così deve  avvenire nei riguardi dell’altro.  Perché altrimenti, il rischio è che dal Bullismo si giunga, nella crescita, al “Knockout Game”.

Knockout game  

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Un gioco malato conosciuto come “k.o. in cui gli adolescenti puntano un inconsapevole ed ignaro passante con l’obiettivo di colpirlo con un singolo pugno/colpo. Gli assalti possono essere anche mortali e gli attacchi non sono mai provocati dalla vittima designata. In America è allarme! In molti Stati è emergenza al punto che si sta approntando un impianto normativo ad hoc.

Lo chiamano “gioco”, ma è  un termine troppo pericoloso da usarsi per definire questo comportamento che, invece, rappresenta una tendenza problematica  certamente più raccapricciante di un gioco. L’esperto americano Chuck Wlliams, professore di psicologia ed educazione in un’ Università di Filadelfia, definisce il knockout come un fenomeno di violenza gratuita perpetrato  da giovani spesso adolescenti. Del fenomeno ritiene responsabili i genitori  e la società, che veicola  un modello negativo : «Noi commercializziamo violenza ai nostri bambini e poi noi ci chiediamo perché essi sono violenti. È perché noi lo siamo.»; inoltre: «gli adolescenti faranno qualsiasi cosa per essere notati, indipendentemente dal modo atroce o esorbitante.». Secondo il professore, questi ragazzi conoscono bene le conseguenze delle loro azioni, vogliono essere arrestati, vogliono essere presi perché  vogliono mettersi in mostra proprio per ottenere quella nomea. Sanno bene  che rischiano poco perché, in fondo,  sono pur sempre ragazzi, per questo aggiunge che per loro: «È una vittoria, in qualunque caso.». Riguardo alla possibilità di divenire vittima in questa circostanza, una certa responsabilità viene attribuita al fatto che le persone sono sempre più prese e distratte dallo smanettamento di smartphones o dall’ascoltare la musica quando camminano, fatto questo che crea una maggiore vulnerabilità ad un assalto. Lo specialista di giustizia penale minorile Jeffrey Butts ritiene che gli autori del knockout game siano dei giovani che in qualche modo tentino di «provare la loro virilità» ma paradossalmente quello che alla fine riescono a dimostrare è che sono degli «immaturi». Questo spiega il perché, poi, queste azioni vengono filmate e condivise nonostante dovrebbe essere considerato un comportamento riprovevole. Un’ ulteriore spiegazione è quella che sostiene che: «Molti adolescenti stanno cercando il brivido più nuovo, anche se questo significa danneggiare una persona ed avere delle conseguenze penali…Questo genere di violenza diretta contro la gente, nell’assenza di un desiderio di derubare loro o qualsiasi altra cosa, è in effetti abbastanza nuovo,”  l’unica volontà è quella di stendere a terra in un sol colpo» una persona che nemmeno si conosce. Dunque, per alcuni lo scopo è solo legato al brivido di colpire qualcuno ignaro,  inconsapevole di quello che gli starà per accadere, mentre  per altri lo scopo è il  rafforzamento positivo, il poter apparire potente, forte agli occhi del gruppo dei pari. Quando parliamo di pressione di pari, stiamo parlando di un gruppo di individui che impongono i loro propri valori, le loro proprie attitudini e le loro proprie preferenze a qualcun altro, il quale tende a conformarsi.
Per concludere: per qualcuno il bullo non è figlio della società post-industriale e moderna, massificata e depauperata di valori, ma è stato generato dalla competizione umana che è presente da sempre, da quando esiste l’uomo e ancora prima a partire dal mondo animale. Ma che sia sempre esistita o meno, ciò che conta oggi è riconoscere l’incidenza degli adulti, magari a volte anche inconsapevolemente, a rafforzare la concezione del ricorso alla «forza e alla frode» come sistema per affermare se stessi. In altre parole: a partire dalle famiglie, per passare alla scuola, i nostri bambini, adolescenti e giovani adulti, vengono educati alla competizione, che non sempre è quella sana, onesta, necessaria alla realizzazione positiva di se stessi. A volte, la spinta è al rispecchiamento: genitori, insegnanti che desiderano vedere nel bambino la proiezione della loro capacità di aver “creato” un “mostro di capacità”. Questa richiesta implicita muove il ragazzo a dover sempre dimostrare agli altri di essere qualcuno in grado di fare qualcosa, e questa impresa non sempre è un atto positivo, buono per l’altro, ma è ciò che lo rende visibilmente un “eroe” (lui si percepisce tale) agli occhi degli altri (il gruppo dei pari), benchè abbia in realtà prodotto danno ad un altro essere umano. Ma nella società egoica questa è un’altra storia che poco importa!
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