“Un bambino che subisce prepotenze, è vittima di bullismo quando è esposto ripetutamente e per lungo tempo alle azioni ostili di uno o più compagni” e quando queste azioni sono compiute in una situazione di “squilibrio di forze, ossia in una relazione asimmetrica: il ragazzo esposto ai tormenti evidenzia difficoltà a difendersi” (Dan Olweus, psicologo norvegese). Forse é perchè il fenomeno ha per autori dei giovanissimi, spesso bambini, che intorno al fenomeno del bullismo ruotano un insieme di idee preconcette e atteggiamenti diffusi in ogni ambito, da quello familiare a quello scolastico, che tendono a giustificare e sminuire tali comportamenti, addirittura negandone l’esistenza, per cui troviamo affermazioni del tipo:
- non è prepotenza ma è solo una ragazzata;
- fa parte della crescita, cambierà;
- deve imparare a difendersi, fa bene,
- le difficoltà aiutano a crescere;
- nella nostra scuola il problema non esiste;
- a volte le vittime se lo meritano;
Perchè i comportamenti siano ascrivibili al fenomeno del bullismo devono rispondere a determinati fattori, tutti compresenti:
a) intenzionalità: il bullo ha coscienza di voler mettere in atto, con strategia e pianificazione, comportamenti aggressivi, fisici e verbali, con lo scopo di offendere, umiliare l’altro e di arrecargli danno o disagio;
b) persistenza: sebbene anche un singolo episodio possa essere considerato una forma di bullismo, quando mira ad imporre una propria supremazia agli occhi degli altri, l’interazione bullo-vittima, come per il mobbing, è caratterizzata dalla ripetitività di comportamenti protratti nel tempo (con frequenza ricorrente per almeno 3 mesi);
c) asimmetria: il bullismo si fonda sul disequilibrio e sulla disuguaglianza di forza tra il bullo che agisce e la vittima, che spesso non è in grado di difendersi. Il comportamento di attacco viene perpetrato con modalità sia fisiche che verbali (botte, pugni, calci, offese e minacce) in aggiunta a modalità di tipo psicologico indiretto, quali l’esclusione o la diffamazione, ovvero tendenti ad isolare la vittima.
Come per il mobbing, anche nel bullismo si osserva la presenza di più partecipanti e con ruoli differenti, sia attivi che passivi: oltre al bullo abbiamo i gregari, costituiti da coloro che partecipano alle prepotenze sotto la direzione del bullo; i sostenitori che sono quelli che pur assistendo passivamente senza prendere parte all’azione, di fatto la sostengono attivamente con incitamenti, risate, ecc…, al contrario degli spettatori neutrali che invece non prendono una posizione e che, anche se non presenti durante gli episodi di bullismo, ne sono comunque a conoscenza; i difensori della vittima, quelli che si assumono il rischio di difendere chi subisce gli atti di bullismo.
Gli atti di bullismo vengono perpetrati di solito in gruppo, creando fra i componenti una sorta di gerarchia in cui è possibile distinguere un “capo” e i suoi “gregari”, che svolgono un ruolo di rinforzo e sostegno. Il gruppo, o meglio “il branco”, si autoalimenta anche a causa di quelle persone indifferenti che fanno da “pubblico”, le quali, non intervenendo, rafforzano nel branco il senso della propria forza nei confronti dei più deboli. Quindi, il disequilibrio si constata non solo tra bullo e vittima sul piano della fisicità o sull’ incapacità di quest’ultima a difendersi, ma anche sul fatto che l’uno è spalleggiato e sostenuto da un gruppo mentre l’altra è contornata, molto spesso, da spettatori che con la loro indifferenza di fronte alle prepotenze del bullo e del suo gruppo contribuiscono anche a farla sentire isolata, impotente ed emarginata.
Quali sono, dunque, i fattori alla base dell’emarginazione di una persona dal gruppo? Da che cosa è determinata la scelta del bullo circa un particolare soggetto che poi diviene suo “bersaglio”?
L’esclusione di un individuo dal gruppo, con la motivazione della scelta di isolare quell’individuo in particolare e non un altro, è un argomento alquanto controverso. Il motivo più facilmente rintracciabile è la diversità dell’individuo emarginato dal resto della comunità. L’ambiente di lavoro, della scuola, infatti è costituito da un piccolo gruppo di individui che non si aggregano su base semplicemente volontaria e per libera scelta di appartenenza a quel sistema, ma per altre circostanze sicuramente. Normalmente, in un sistema allargato si possono creare dei sottosistemi, piccoli gruppi, uno zoccolo duro, che tendono ad escludere “i diversi”. Il diverso può essere una persona che si discosta dalle caratteristiche generali del gruppo di appartenenza (aspetto fisico, capacità, intelligenza, carattere…) oppure una persona che, essendo stata etichettata, diviene “idealmente” diversa alla maggioranza.
E qui si crea il dubbio: ma la persona “è” o “viene fatta divenire” diversa nel gruppo?
La differenza che lo contraddistingue negativamente dal resto del gruppo può essere volontaria o involontaria. Nel primo caso il soggetto emarginato, se soggetto deviante, non conformantesi alle regole adottate dal gruppo, si “emargina”. Altre volte, a rafforzare l’ostilità di un gruppo nei confronti di un individuo è il fattore detto di Normalizzazione:
“c’è nell’uomo una tendenza fondamentale a moderare le proprie opinioni e la propria condotta in rapporto alle opinioni e alle condotte degli altri”. (Allport 1954)
In altre parole, dal punto di vista cognitivo, una persona potrebbe aderire al parere negativo che ha la maggioranza sul deviante o sul diverso. Un altro processo sociale all’interno del gruppo, che può condurre all’emarginazione di un soggetto, è L’obbedienza cieca all’Autorità. A questo riguardo è celebre l’esperimento di Milgram[1969], in cui ogni soggetto esaminato doveva somministrare scariche elettriche ad un’altra persona, ogni qual volta questa rispondeva erroneamente a dei quesiti. L’intensità della scarica veniva aumentata al progredire degli errori. I risultati furono sbalorditivi: il 62% dei soggetti, istigati dallo sperimentatore aumentava l’intensità della scarica. Stupefacente il fatto che obbedisse ciecamente all’autorità, pur essendo consapevole che questo comportava dolore ad un altro essere umano. Questo esperimento determinava l’affermazione circa l’esistenza di una sorta di conformismo verso chi detiene il potere. L’Abuso di potere ricorre in tutti questi fenomeni. Non a caso l’essenza di questi fenomeni di sopraffazione dell’altro, come avviene nel mobbing, nel bullismo e nello stalking, è di essere “una forma di aggressione che implica un sistematico abuso di potere” (Smith e Sharp, 1994, p. 2). La matrice, in tutte queste forme di comportamento, è di tipo relazionale: un soggetto si avvale del proprio potere per infliggere un danno ad un soggetto più debole, non in condizione di difendersi, allo scopo di affermare il proprio dominio sull’altro. Che sia bullismo, stalking o mobbing il comune denominatore è l’aggressione. Un completo, barbaro e totale non-rispetto dell’altro come persona, con le sue idee, i suoi valori e soprattutto le sue scelte. Lo scopo che sottende questi comportamenti sembra essere l’incapacità di accettare che gli altri non siano obbligati a fare ciò noi vogliamo, ad esaudire i nostri desideri. Si mettono in atto strategie di terrore e annullamento della personalità in modo da rendere l’altro manovrabile, ricattabile, inerme. Oltretutto, si perpetrano anche forme di aggressione subdole, non esplicite, dalle quali la vittima non riesce nemmeno a difendersi perché apparentemente non sta accadendo nulla, almeno sotto gli occhi degli spettatori inconsapevoli. Perché, in effetti, non sembra stia succedendo qualcosa, non sempre ci sono parolacce, pugni, grida, soprusi o ingiustizie evidenti. È tutto molto nascosto, è una violenza fatta di gesti, di sguardi, di parole non dette, di telefonate mute, messaggi, di minacce incombenti, come il fatto di trovare una persona non gradita dovunque si vada, eccetera. Anzi, il più delle volte, specie nello stalking, il fenomeno emerge quando ormai è troppo tardi.